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IL RITORNO DI HARRY COLLINGS
(THE HIRED HAND)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 5 luglio 1972
 
di Peter Fonda, con Peter Fonda, Warren Oates, Verna Bloom (Stati Uniti, 1971)
Fino dalle prime sequenze del film siamo in chiaro sulle intenzioni del nostro Fonda. Una cascata di acqua vera, e, soprattutto, una cascata di sfuocati, di controluce, di sovraimpressioni. La poesia insomma del teleobiettivo, gli omini sagomati contro il luccichio del sole, l'erbetta sensuale, il grano giallo e fecondo, le impronte nella sabbia che srotola, la vita è bella godiamocela, il piacere dell'avventura per l'ha quale Harry Collings se ne era andato di casa sette anni prima.

Uno pesca, bel dritto contro la solita acqua sfuocata, l'altro salta becca sempre in contro luce prima nell'acqua e poi sulla sabbia (si presume nudo, perché e chiaro che un paio di bermuda in quel momento non ci starebbero bene) poi nel bel mezzo dell'allegra scampagnata cromatica quello che pesca aggancia qual'cosa. Tira la lenza e, orrore e fine dei controluce gioiosi, aveva agganciato il corpo di una bambina che galleggiava, bionda si specifica anche. Cosa centri non si capisce esattamente (e no lo si capirà nemmeno con il prosieguo del film, perché certe cose o si capiscono subito, o non si capiranno mai), comunque cambia la musica, si introduce il dramma latente, la problematica che stava a cuore al regista in breve a questo punto lo spettatore dovrebbe capire che non è tutta allegria dietro le belle immagini.

Queste belle immagini (la fotografia è diretta dal grande Vilmos Zsigmond) sono proprio il guaio di Peter Fonda: alcune sono veramente belle, specie quelle che riguardano la moglie e la bambina nel loro ambiente famigliare, dei piccoli capolavori di composizione, perfetti come i quadri degli olandesi, densi di una bella emozione. Altre sono orribili, come certi tramonti col controluce del cowboy, un incredibile festival dell'anilina. E fra queste, alla fine, risultano essere tutte quelle dissolvenze sovrimpressione che costituiscono un po' il tema visivo dominante del film. Un desiderio di cristallizzazione della memoria, di contemplazione del ricordo, di certi valori eterni ai quale l'uomo, vuol forse dire Fonda, non può sfuggire. Ma a metterne centomila, dio buono, qualsiasi intenzione va a farsi benedire, e tutto finisce per essere un semplice procedimento tecnico - estetico, più o meno ingenuo.

Io credo che Fonda abbia semplicemente sbagliato film, o genere di film. Perché certe sue intenzioni, che bene o male si arrivano a dedurre, sono tutt'altro che cattive. Una volontà di riflessione, un desiderio di scavare nel ritmo del film, e quindi nei significati della vicenda, di attardarsi ad esaminare le psicologie ed i caratteri in un modo più profondo, meno affrettato, nuovo in definitiva, di quanto abbiano fatto, in occasione identiche, altri prima di lui.

Sfrondato dalle eccessive compiacenze formali, evitando quegli scogli che non gli sono congeniali (l'azione, la violenza tipiche del western non mi sembrano appartenergli granché) Fonda ha qualcosa da dire di nuovo, ma non sa ancora dirlo esattamente.

Il commento musicale è ottimo.


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